Di seguito un’intervista a Giorgio Bianchi, fotografo e fotoreporter, realizzata da Massimiliano Tempesta nel 2016 – WSP Photography.
1) “Siete eroi, siete il meglio che l’Ucraina possa avere…” Questo urlava dalla sua sedia a rotelle su un palco la Tymoshenko. Secondo te che sei stato testimone oculare della rivolta e della conseguente escalation, i rivoltosi erano davvero “Il meglio dell’Ucraina”? Cosa è successo in realtà?
Premesso che chiunque metta in gioco la propria vita per una causa, qualsiasi essa sia, meriti il massimo del rispetto credo che oramai non vi sia più dubbio alcuno che quello che è accaduto in Ucraina sia stato un colpo di stato ideato all’estero e messo in pratica principalmente da gruppi paramilitari ben addestrati.
L’immagine della sommossa di popolo contro la corruzione ha retto fino ad un certo punto ovvero fino a quando gli striscioni e gli slogan non hanno lasciato il posto alle mazze chiodate, alle molotov ed in alcuni casi alle armi da fuoco.
Mi dispiace dire questo perché sono stato a lungo in mezzo a quei ragazzi ed ho condiviso con loro gran parte degli eventi che hanno portato alla situazione attuale; ma purtroppo, a conti fatti, non si può far finta di non vedere che chi ha tratto beneficio dalle scelte scriteriate portate a compimento in quei giorni è soltanto chi puntava alla destabilizzazione ulteriore dell’Europa ed al suo allontanamento da un partner commerciale decisivo quale è la Federazione Russa.
Ancora oggi non capisco cosa si potesse aspettare il popolo Ucraino da un’Europa che ha lasciato affondare la Grecia senza muovere un dito e che allo stesso tempo lascia in balia delle onde o in mezzo al fango profughi che sfuggono da conflitti troppo a lungo ignorati.
La colpa di quello che è successo in Ucraina a mio personalissimo giudizio non va addossata a coloro i quali, a torto o a ragione, si sono battuti per un ideale, e paradossalmente neanche a chi li ha usati per propri fini geopolitici; la colpa maggiore in questo conflitto fratricida ce l’ha l’Europa che con la sua ignavia ha lasciato che la situazione precipitasse fino a queste estreme conseguenze, non essendo in grado di interpretare alcun ruolo di mediazione tra i due vasi di piombo USA e Federazione Russa, anzi appoggiando acriticamente le posizioni Atlantiche.
2) A tuo parere, la rivolta e la successiva guerra civile sono state seguite in maniera esaustiva ed oggettiva dai media Occidentali?
Assolutamente no.
Basti pensare che un rappresentante di una grande associazione che si batte per i diritti umani guardando le mie foto in mostra a Milano ha detto, cito testualmente “non credevo che i manifestanti fossero così bene armati ed organizzati”.
Allo stesso modo durante una Lectio Magistralis tenuta in un liceo di Busto Arsizio, al termine della proiezione di un audiovisivo sulla guerra in Ucraina ho chiesto ai ragazzi se avevano idea che a tre ore di volo da casa loro stesse accadendo quello che avevo loro mostrato.
La risposta è stata unanime, ovvero no.
Una volta, almeno i grandi giornali, avevano i loro fotografi ed i loro inviati, che con il loro lavoro rifornivano le testate di notizie e fotografie di prima mano.
Vi era un tipo di informazione che per sua natura era più plurale.
Oggi con la crisi della carta stampata sono sempre meno gli editori che si possono permettere degli inviati e per questo motivo si ricorre sempre di più alle foto di agenzia ed al “copia ed incolla ”degli articoli provenienti dai grandi network.
Tutto ciò ha condotto ad un drastico appiattimento dell’informazione sulle posizioni dei grandi gruppi con tutto ciò che ne consegue.
Un minimo di pluralità dell’informazione oggigiorno è garantita soltanto dai freelance che, tra mille difficoltà, ancora riescono a dar voce a quelle storie che i grandi media preferiscono non raccontare.
3) Hai raccontato tante storie ucraine, le hai cercate te, ti sono arrivate addosso all’improvviso? Quante ne vuoi raccontare ancora?
La scelta dell’Ucraina ed in particolare del Donbass è stata dettata proprio dalla voglia di indagare cosa accade al tessuto sociale di un paese scosso da una catastrofe quale può essere la guerra civile.
La parola che più a lungo mi è risuonata nella testa in quel periodo è stata proprio quella che dà il titolo alla mostra ovvero “fragile”: perché fragili erano in quel momento gli accordi di Minsk visto che ancora si combatteva, fragili erano le relazioni sociali e familiari spezzate dalla furia della guerra, fragili erano i manufatti umani che si sgretolavano sotto le bombe ma soprattutto fragile era lo sguardo dei civili e dei miliziani poiché tradiva la mancanza di certezze per il futuro.
Al momento sto lavorando sulla Siria perché anche lì c’è una una storia poco conosciuta ovvero quella dei soldati siriani.
In occidente li si è accusati delle peggiori nefandezze; mi piacerebbe restituire loro la dignità di uomini e di soldati raccontando come, assieme ai guerriglieri curdi, siano stati gli unici ad opporsi sul campo a Daesh e come, per questo motivo abbiano, pagato il prezzo più alto in termini di caduti, decapitati e torturati.
4) Burkina Faso, Vietnam e tanta Ucraina, sono tutte storie al limite, in cui c’è un grande coinvolgimento fisico, mentale, quanti segni rimangono? Mi viene sempre in mente il film Triage con Colin Farrel.
A me viene sempre in mente la scena del film The hurt locker quando il protagonista, di ritorno dall’Iraq, si ritrova spaesato all’interno di un ipermercato.
Dopo aver sperimentato il caos ed il disordine portati dalla guerra la normalità appare un po’ come gli scenari di cartapesta negli studi cinematografici: pensi che è talmente fragile da non poter essere reale.
5) Con quante foto si può raccontare una storia?
Accompagnata dalla giusta didascalia può bastarne anche una.