Antonella Monzoni vive e lavora a Modena. Nel 2010 è nominata Autrice dell’Anno dalla FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche che le dedica la monografia Il delicato sentimento del vedere. Nel corso degli anni ha conseguito numerosi premi fra cui il Premio Mario Giacomelli 2007 per il lavoro Madame. Nel 2009 ha ricevuto la Menzione Speciale Amnesty Interntional dei Festival dei Diritti con Ferita Armena, un’opera con cui è giunta finalista al Premio Amilcare Ponchielli e selezionata al Visa pour l’image 2009 di Perpignan.
1) Hai dedicato il premio FIAF Autore dell’anno 2010 alle donne fotografe e in generale alle donne appassionate di fotografia che hai incontrato e avuto modo di conoscere. Qual è il significato di questa dedica?
E’ una dedica al ruolo delle donne nella fotografia e alla loro grande capacità. Ne ho incontrate tante in questi miei primi dieci anni di fotografia, da fotografe a photoeditor, curatori e critici. E tutte innamorate della fotografia, con un sentimento tipicamente femminile che unisce il privato all’immagine prodotta o visionata, alle storie vissute; un amore protettivo, di cuore e di stomaco, con una proiezione forse troppo poco competitiva rispetto a quella maschile. Ma forte e necessaria.
2) Oltre al Premio Fiaf, tra i tanti riconoscimenti che hai avuto qual è quello a cui sei più legata e per quale motivo?
Senz’altro essere stata selezionata alle proiezioni del VISA 2009 di Perpignan con il mio lavoro sull’Armenia. Da otto anni visitavo questa splendida manifestazione che offre spaccati di fotografia fotogiornalistica assolutamente unici per attualità, qualità ed argomenti. Mai avrei pensato di poterne vivere come interprete un piccolo spazio.
3) Cosa ti ha spinto verso la fotografia. E’ stato un avvicinarsi graduale od un innamoramento improvviso?
Direi una necessità, un’urgenza che mi è venuta incontro a quarant’anni, età critica in cui una persona cambia, una donna in modo particolare, è quasi una questione “ormonale”, un passaggio obbligato dove si soppesano tante cose: il lavoro, lo stile di vita, la coppia, i figli non avuti, si tirano le somme e la voglia di cambiamento ti balza addosso. La fotografia mi ha aiutata e sono stata fortunata, da subito ho capito che tipo di fotografia amavo: il reportage.
4) In molti dei tuoi progetti racconti le religioni, come nel lavoro indiano Kumbha Mela o in Lalibela, realizzato in Etiopia, sei più interessata a cogliere i momenti identitari dei vari culti o la loro spiritualità intesa come elemento trasversale?
Religione è identità, ma è la spiritualità è l’elemento in cui mi interessa immergermi. E’ il leit motiv delle religioni. È la forza trasversale e imprescindibile. Provo un forte sentimento di rispetto e di riconoscenza nei confronti di qualsiasi forma posso assumere il divino, mi sono successe cose assolutamente uniche ed irripetibili in questi incontri. Ed ho sempre più la certezza che se succede non è mai un caso.
5) Da quando hai iniziato a fotografare ad oggi si è trasformato – e se si come – il tuo “sentimento del vedere”?
Sicuramente, per una forma di maturità, per interessi che cambiamo o si trasformano. Per la curiosità che mi accompagna sempre. Dai rituali religiosi sono passata a raccontare rivelazioni del privato di piccole comunità (villaggi che raccontano la silenziosa bellezza africana, piccole comunità della Russia che parlano di alienazione e abbandono, cittadine border-line in Ucraina che vivono all’ombra di centrali nucleari e producono badanti per l’ovest europeo, dettagli di vita di vignerons benestanti della Borgogna francese, …) a racconti intimi di persone “speciali” che ho incontrato come Madame Henriette Niépce (lavoro con il quale vinsi il Premio Giacomelli nel 2007), al tormento di un popolo come quello armeno che ha ancora aperta una grande ferita: il genocidio subito nel 1915 ma non ancora riconosciuto totalmente. Poi nell’ultimo lavoro (The faceless guest) sono passata ad un’indagine più voyeuristica, scattando nelle stanze d’albergo ancora abitate in assenza dell’ospite, per riportare come in un piccolo spazio impersonale come la stanza d’hotel, un ospite senza volto, sconosciuto, può raccontarci tanto della sua vita.