Torinese del 1961 si scopre fotografo durante gli studi di veterinaria. Di diploma all’Istituto europeo di design di Roma in fotografia. I suoi progetti di lungo termine trattano la diaspora kurda e la povertà in Monzambico.Vincitore di numerosi premi inernazionali come il World Press Photo, il premio FNAC Attenzione talento fotografico.

1) Sta per iniziare il tuo workshop in Sardegna. Nella presentazione si legge che si prefigge di educare ad osservare con occhi nuovi un luogo già abbondantemente visto e fotografato, opponendosi alle idee imposte dal mercato e dall’opinione comune. Come si educa a “guardare”? Come si costruisce il proprio “sguardo fotografico”?

Credo che sia più semplice di quello che si pensi. Cerco di aiutare le persone a guardare la realtà per quello che è, senza andare alla ricerca del “bello per forza”, ad interpretarla, a comunicare qualcosa in un momento in  cui siamo sempre più bombardati dai media ma sempre meno informati. Uno sguardo è personale quando non si cura troppo di piacere o seguire le mode del momento. In fotografia non si inventa più nulla di nuovo ma questo non significa che non si possa essere autori o personali.

2) Un lato importante della tua professionalità è dedicato all’insegnamento sia con la Scuola Romana che con i workshop. Quale è il tuo rapporto con gli studenti?

Mi piace insegnare anche se mi assorbe molta energia. Lo faccio per passione perchè di certo non ci si arricchisce. Mi dà soddisfazione vedere gli studenti intraprendere la loro strada grazie ai miei consigli, mi piace quando una persona che comincia da un livello molto basso alla fine tira fuori il proprio istinto e riesce a fare il salto di qualità. Sono molto critico, a volte duro ma anche molto disponibile. Cerco di dare molto come autore, docente e essere umano. In genere  la loro risposta è positiva. Con molti di loro rimango in contatto anche dopo la fine dei corsi.

3) Nel tuo lavoro ti sei occupato di eventi drammatici che sfuggono al controllo dell’uomo, come lo tsunami o il più recente terremoto in Abruzzo. Con che spirito si affrontano lavori del genere? Che valore assume la fotografia in questi casi?

In primo luogo vado sempre dopo il delirio mediatico che accompagna questi eventi. Lo spirito è quello di mettersi in sintonia con le vittime, cercare di documentare cosa significa diventare improvvisamente non autosufficienti, dover ricominciare la propria vita da capo, di raccontare la verità piuttosto che cercare di creare enfasi sulla tragedia. Per esempio in Abruzzo sono avvenute e stanno avvenendo cose di cui mai nessuno ha parlato con serietà. Mai nessun terremoto è stato usato in chiave elettorale come quello in Abruzzo. Stanno cercando di sradicare la gente dalla loro terra, tradizioni e abitudini in nome di una presunta efficienza ed emergenza. Una frase di un terremotato può forse aiutare a capire meglio la questione: “Il terremoto distrugge gli alberi ma le radici le possono distruggere solamente gli uomini”.

4) Ti sei avvicinato alla fotografia nel corso dei tuoi studi di Veterinaria. Da cosa nasce questa scelta? Cosa ti ha fatto scattare la molla della fotografia non solo come passione ma come professione?

Degli amici che stavano facendo i primi passi nella professione mi hanno trasmesso la passione. La scelta è diventata per me abbastanza obbligata perchè non riuscivo più a studiare e tentare la via del professionismo contemporaneamente. Dà lì ho poi cominciato la gavetta e ad affrontare le difficoltà che in questo lavoro non sembrano mai avere fine…

5) “White murder” e “The Lands of Shutter dreams” affrontano due tematiche molto attuali e per certi versi legate tra loro e conseguenze di un momento economicamente e socialmente molto critico. Come si colloca la fotografia nell’attuale momento di crisi mondiale? La subisce o trova modo di reagire, di reinvetarsi?

Questa domanda è probabilmente la più delicata. La fotografia  ed in particolare il fotogiornalismo hanno subito fortemente la crisi e tutto questo va a collocarsi in un momento storico che comunque vedeva già la critica fase di passaggio dalla carta stampata al multimediale, dall’analogico al digitale. Si producono lavori esteticamente belli ma spesso privi di contenuti, c’è una concorrenza mostruosa e sempre minori possibiltà di trarre guadagno o sostentamento da questa professione. Gli editori hanno grandi responsabiltà e la loro continua ricerca di storie positive  e sempre meno pagate sta determinando quella che molti definiscono la possibile morte del fotogiornalismo. Credo che la fotografia, quella seria,  vada restituita alla gente. Sembra sempre più un prodotto  per gli addetti ai lavori.  Alle mostre vedo sempre le stesse persone. Eppure tanta gente è appassionata di fotografia e chiede di essere educata. Lavori più riflessivi che aiutino la gente ad interagire, capire, porsi delle domande può essere un processo che può cambiare il trend negativo che si è venuto a creare e se i giornali non vogliono partecipare, perchè completamente schiavi della pubblicità, bisogna trovare altre vie per renderli visibili.

Massimo Mastrorillo