Nato Oslo, Norvegia, nel 1981. Studia fotogiornalismo in Italia, ritorna ad Oslo dove al momento risiede.Le sue Storie di violazioni dei diritti umani e di conflitti dimenticati lo hanno portato a viaggiare dall’Africa, all’ Asia ed all’ Europa dell’Est. Dal 2006 collabora con Contrasto.
1)Sei norvegese ma la tua formazione fotografica è avvenuta in Italia, adesso sei tornato nel tuo paese natale. Quali sono le maggiori differenze,
fotograficamente parlando, tra i due paesi?
Avendo vissuto, studiato e lavorato in Italia per quattro anni, le maggiori differenze sono state il linguaggio fotografico del fotogiornalismo tra la
Norvegia e l’Italia. Ad esempio quando mi sono trasferito ad Oslo era di moda saturare le immagini, e usare colori forti,invece era molto di moda in Italia
desaturare le immagini leggermente. Penso che il mercato nord europeo e quello sud europeo parlino in due modi diversi. Inoltre lavorando in Italia mi e
sembrato molto difficile, sopratutto la parte finanziaraia. In Norvegia ad esempio dopo aver concluso un servizio commissionato, il cliente è obbligato a
pagare entro 15 giorni per legge, in Italia mi sembra che sia di 60-90 giorni. Gli stipendi in Norvegia sono più alti. Ogni anno esce un libro in Norvegia
che presenta tutti le fondazioni che supportano i progetti d’arte, letteratura, giornalismo etc. Questo è un buon aiuto a chi ha bisogno di un finanziamento
per realizzare progetti personali.
2)Come avviene la scelta delle storie da raccontare? Quali sono le fasi per una buona riuscita di un reportage?
La scelta di una storia da raccontare per me è in parte basata su quello di cui non si parla nei giornali. Cerco sempre storie che non sono rappresentate nei
media norvegesi e in quelli europei. La ricerca occupa una gran parte del lavoro, ma è anche quella una parte molto interessante.
3)Hai dei fotografi di riferimento?
Per inspirazione e svilluppo guardo sempre altri fotografi, e non solo fotografi che lavorano nel campo del fotogiornalismo.
Io lavoro non solo con i reportage socio-politico ma faccio anche reportage di viaggi, ritratti e news.
Ma se devo nominare qualcuno direi Yuri Kozyrev, Antonin Kratochvil e Richard Avedon
4)In “Female in a male”, “Quake in Abruzzo”, ma anche in “Prison in paradise” ti sei trovato in situazioni, anche se molto differenti, delicate e molto personali,
come ti rapporti con la gente che fotografi? In quale modo conquisti la loro fiducia?
Sono sempre molto chiaro e aperto negli incontri con le persone. Molto spesso le storie che faccio parlano della causa delle persone protagoniste.
Semplicemente per questo la gente si apre un pò di più. La storia ”Prison in paradise” parla di un carcere in Norvegia basato su libertà con responabilità
per I detenuti. Hanno le loro piccole case al mare, possono andare a nuotare o fare un giro pescando con la barca. Qui i detenuti vogliono mostrare il fatto
che un carcere non deve per forza essere come uno si immagina, e mostrare il fatto che la pena non è una cura per un criminale.
5)Pensi di aver trovato un linguaggio fotografico personale o il linguaggio fotografico deve esser sempre in evoluzione?
Uno che non si evolve sempre e non cerca nuovi modi di esprimersi, non ha scelto il lavoro giusto.
6)Per un giovane fotografo è importante trovare da subito uno stile personale e cercare di imporlo o conviene essere meno “integralisti” per avere più mercato?
Questo penso che sia una scelta chiara tra il modo facile e il modo difficile. Nel senso che se fare soldi è lo scopo principale, uno deve fare un pò di
tutto e sempre addatarsi a quello che vuole il cliente. Invece se riesci a stabilizzarti nel mercato con uno stile particolare il cliente va a cercare il tuo
stile invece di chiedere ad un altro di creare quello che l’art director ha in mente.
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