1)Parlando del lavoro “Terre di sud” dici che:”Negli ultimi anni la fotografia di reportage soffre troppo il peso del digitale, soffre di una vera e propria deriva formalistica. Questo lavoro vuole essere impressionistico, immediato, direi quasi più sporco”. Il digitale ha impoverito il linguaggio del reportage?
Sono ormai passati due anni da “Terre di sud” e in questo tempo ho sicuramentematurato un distacco da quel lavoro, il naturale distacco che sempre si pone fra sè e una propria opera, una volta conclusa. Questo per dire che oggi andrei più cauto nel ripetere quell’affermazione. Il digitale in realtà ha modificato inevitabilmente la gamma e le possibilità espressive della fotografia, è strumento simile e insieme diverso dalla pellicola, ma non per questo di per sè “formalistico”, è più l’uso che ne facciamo. Quello che in realtà volevo dire, cercando al contempo di valorizzare la scelta della pellicola in “Terre di Sud”, è che l’ingombrante presenza della postproduzione nella fotografia digitale (e intendiamoci: è una tentazione in cui cadiamo tutti, io per primo) spesso tende a livellare le differenze fra i fotografi e le storie narrate, e che l’infinita quantità di immagini che permette di realizzare spesso toglie immediatezza e concentrazione al singolo scatto fotografico. Ma è rischio che dobbiamo correre, è inevitabile, perchè il digitale è ormai il mezzo espressivo più diffuso al mondo, e non si torna indietro. Saranno i singoli fotografi a sondarne le possibilità e le eventuali derive, anche formalistiche. Ed è per questo motivo, dopo “Terre di Sud”, che ho abbandonato la pellicola e scelto di lavorare esclusivamente in digitale. Magari cercando di mantenere quell’idea di sporco e di impressionistico che ho cercato con “Terre di Sud”
2)In un numero di giugno de “L’Espresso” fotografi le tendopoli aquilane, in situazioni particolari come questa che tipo di approccio utilizzi con le persone? Come fai a rimanere “invisibile”?
Spesso, quasi come una battuta, mi ritrovo che la fotografia si fa più con le gambe che con gli occhi. E’ davvero una specie di danza nello spazio. E questa danza sempre riflette il carattere del fotografo. Io di mio sono (o almeno credo di essere) una persona abbastanza timida e che ci mette sempre un po’ prima di sentirsi a suo agio in una situazione nuova. E questo limite (evidentemente poco adatto al reportage) cerco di volgerlo a mio favore. E’ difficile che una persona o un gruppo di persone in cui mi sono ‘intrufolato’ avvertano la presenza di un fotografo che s’impone all’attenzione, anzi, probabilmente quasi nemmeno se ne accorgono. Ma davvero più per una forma di discrezione e timidezza che non per chissà quale tecnica. Insomma, dietro l’invisibilità spesso c’è un farsi da parte, quasi un nascondersi. Nel caso specifico del reportage sulle tendopoli, ero davvero il primo a sentire l’imbarazzo di stare lì a osservare le perquisizioni della polizia o comunque a volermi introdurre nella vita di altre persone. E così spesso mi faccio quasi invisibile, lasciando ad altri il primo piano della scena. E’ davvero un modo di occupare lo spazio, emotivamente.
3)Raccontaci qualcosa del progetto “Extra media”.
Extramedia è nato dopo “Terre di Sud” e in qualche modo ne conserva e ne amplifica le motivazioni. Il viaggio per il nostro mezzogiorno non ha soddisfatto la mia curiosità sulla realtà italiana, mi sento che è ancora poco quello che ho fatto e quello che si dovrebbe fare per raccontare un paese che è davvero un caso unico e anomalo nel cosidetto “occidente”. Extramedia è così innanziutto la voglia di rimettersi in viaggio attraversando l’Italia contemporanea, l’Italia della crisi, come diciamo. Questa volta però, al contrario di “Terre di Sud” che è stato un lavoro solitario, avevo voglia di viaggiare insieme a dei giornalisti e di raccontare e capire insieme a loro. Avevo voglia di ricreare la coppia fondativa, per così dire, del fotogiornalismo: un giornalista e un fotografo, un testo e delle immagini. L’idea è quella di recuperare idealmente il lavoro che Dorothea Lange e Paul Taylor fecero per conto dell’FSA durante la crisi americana del 1929: viaggiare, raccontare e raccogliere date. E così è nata l’idea del nostro blog: di Extramedia. A noi della redazione ci piace parlare di “realismo digitale”: fotografie, testi e video, viaggiando attraverso l’Italia e raccolti in un blog. Perchè siamo convinti che sempre di più (un po’ come prima si diceva del digitale) il giornalismo si sposterà sul web. Nei paesi anglosassoni (sempre all’avanguardia, debbo dire, per quanto riguardo le forme del giornalismo) è già una realtà consolidata, in Italia siamo in ritardo, ma stiamo cominciando, e noi siamo tra i primi.
4)Che profilo viene fuori dell’Italia dai viaggi di extramedia.
Un’Italia bloccata, dove sotto la cenere cova la novità, quella che da qui a poco tempo (non so dire quanto ma è sicuro) vedremo venir fuori, anche in modo conflittuale. Dopo la fine della cosiddetta “Prima Repubblica” è nato il bonapartismo italiano: l’era di Berlusconi, le televisioni che si fanno Stato. l’Italia che stiamo attraversando, ci sembra, è insieme l’Italia del suo massimo potere (e del sistema che in realtà incarna) e insieme l’Italia che sta cominciando a far scricchiolare gli equilibri che ci hanno dominato negli ultimi due decenni. Per dirla semplice, la crisi mondiale imporrà anche al nostro paese di cambiare, altrimenti fai crack. Sarà il suo portato positivo. Il vecchio sistema non reggerà ancora molto, è troppo concentrato a conservare se stesso e non si accorge di quello che sta cambiando sotto la spinta delle nuove generazioni, dell’immigrazione, del web. Insomma, l’Italia berlusconiana potrà ancora conservarsi per un po’ ma è ormai soltanto un freno che blocca l’emergere di una nuova realtà. Ed è proprio questa ambivalenza, questo stare in equilibrio fra vecchio e nuovo, fra un paese bloccato e un paese che comincia ad aver voglia di sbloccarsi quello che stiamo cercando di raccontare. Al di fuori di ideologie e di preconcetti. Il nostro motto è davvero andiamo a vedere come le stanno le cose, la realtà sorprende sempre. E l’Italia con lei.
5)Da ex-filosofo quali leggi governano, se esistono, l’estetica nella fotografia?
Bella domanda. Per provare a rispondere però, in poche righe, smetto i panni del fotografo e indosso quelli del filosofo (di una vita fà). Più che leggi sono convinto che la fotografia abbia una sua matrice estetica, che è esattamente quello che inviduò Roland Barthes: la fotografia è comunque e sempre una traccia di qualcosa che è stato. Un “indice” si direbbe in semiologia. Anche nel digitale, anche nelle fotografie più astratte e/o rarefatte. Se è una fotografia è sempre un indice di una realtà, sempre. Altrimenti, passiamo dal campo della fotografia a quello dell’immagine. Non condivido molto le discussioni che da ormai un decennio ci sono intorno alla realtà o finzione della fotografia (tanto più se di reportage). Da un punto di vista filosofico la questione è mal posta (si direbbe) perchè una fotografia è sempre una finzione che rimanda a qualcosa che non lo è (una realtà che ha impresso l’immagine in un tempo passato), sia che si voglia essere più documentativi sia che si voglia essere più onirici. Non cambia nulla. Anche nei casi più estremi (vedi Robert Frank o Ackermann e D’Agata oggi) dove dei fotografi hanno cercato di mostrare la finzione insita nella fotografia stessa, specie di reportage, comunque quell’indice di qualcosa al di fuori di noi non si cancella mai, altrimenti siamo nell’immagine, ma non nella fotografia. Per capirci in un esempio semplice, ciò che c’è di ancora straordinario nei paesaggi dall’alto di Giacomelli è che pur trovandoci di fronte a delle immagini oniriche (sembrano quasi i disegni di Nazca fatti da chissà quale extraterrestre di passaggio) sempre siamo rimandati fuori di noi, quei segni astratti sono sempre qualcosa, un albero, un campo. L’astratto non annulla mai del tutto cio che è stato. Più o meno è questo quello che penso sia l’estetica fotografica (sperando di non essere stato troppo un ex-filosofo).