Continuano le interviste del WSP.
Pietro Masturzo, nato a Napoli nel 1980, si è classificato secondo al premio Portfolio Fotoleggendo 2009 con il lavoro “Sui tetti di Teheran”.
Come hai iniziato a fotografare, da cosa o da chi hai tratto ispirazione?
Ho iniziato a fotografare come fanno i bambini quando si ritrovano una macchina fotografica tra le mani: ci ho guardato dentro, ho fatto il primo click ed è diventata il mio giocattolo preferito. Ma mai che mi sia venuto in mente, prima del raggiungimento della pazzia, di fare il fotografo. Come ogni decisione folle che si rispetti questa non è frutto di un calcolo. E’ un’operazione di cui si sa solo il risultato. Risultato = faccio il fotografo.
La mia esigenza primaria, lo scopo di una vita, la risposta alla domanda “che cosa vuoi fare da grande?” è viaggiare, per sempre. La fotografia come strumento espressivo l’ho scoperta solo a un certo punto, quando dalla curiosità di vedere è nata l’esigenza di raccontare. E dal momento che non sono mai stato un bravo comunicatore verbale, provo a farlo per immagini.
Se dovessi dire chi o che cosa mi ha ispirato dovrei fare un elenco di nomi lunghissimo. Mi limito a dire che sono diverse le persone che mi hanno aiutato e continuano ad aiutarmi a crescere come fotografo, tanto i rinomati fotografi della Magnum, cui credo ogni fotografo della mia generazione abbia tratto ispirazione, quanto amici e colleghi che condividono con me la passione per la fotografia.
Il tuo lavoro, “Sui tetti di Teheran”, come nasce? è parte di un reportage più ampio?
La serie “Sui tetti di Teheran” è un capitolo a parte del mio reportage in Iran. Nasce dall’emozione di essere lì in quel momento. La prima notte che sono salito su un tetto ho incontrato persone impaurite, poi ho sentito grida indignate, poi qualcuno mi ha raccontato di quando trent’anni fa, ai tempi della Rivoluzione, la gente era salita sui tetti, allo stesso modo, per protestare contro lo scià. La stessa gente ora mi parla di sogni infranti, di tradimento. Ma quello che echeggia sui tetti di Teheran è un grido di speranza oltre che di protesta, di lotta.
Da questo miscuglio di sentimenti nascono le immagini registrate sui tetti di Teheran, che vorrei raccogliere in una mostra che restituisca allo spettatore la sensazione di quelle notti di speranze e disperazione.
Nelle tue foto le urla degli iraniani sembrano assordanti. Qual è stato il tuo impatto con una situazione politica così drammatica? Ti trovavi lì appositamente o per caso?
Pensavo a un reportage in Iran da diverso tempo e il momento delle elezioni presidenziali, nello stesso anno in cui la Repubblica Islamica festeggiava il suo trentesimo anniversario, mi sembrava l’occasione giusta. Così sono partito con l’intenzione di farmi un’idea di come viveva la società iraniana oppressa dalla teocrazia e raccontarla. Non volevo parlare della politica iraniana, ma degli iraniani. Ho capito che ciò non era possibile dopo poche ore che ero a Teheran. Non potevo raccontare la realtà degli iraniani senza entrare nella loro situazione politica, specialmente in quel momento. Quindi sono stato arrestato la notte del mio secondo giorno in Iran per aver fotografato l’entusiasmo dei sostenitori di Moussawi durante le manifestazioni preelettorali. Il mio impatto con la politica iraniana non è stato morbido. Le restrizioni di libertà di cui quel popolo è vittima mi sono state chiare fin da subito. Ho visto i bassiji manganellare e arrestare ragazzi per il solo fatto che stessero facendo festa in piazza in sostegno al proprio candidato. Sono rimasto lì solo un mese, ma è stato così intenso che mi sembra sia durato molto più di trenta giorni. Per raccontarli dovrei scrivere per diverse ore, ma la comunicazione verbale né tantomeno quella scritta sono il mio forte, quindi dovrete accontentarvi delle mie fotografie.
Questo premio è un inizio o una fine di qualcosa? quali sono i tuoi progetti futuri?
Beh, spero che questo premio sia un inizio. Sicuramente è stato un incoraggiamento, perché vuol dire che qualcuno ha sentito le grida dai tetti di Teheran guardando le mie fotografie. Di progetti per il futuro ne ho diversi, personali e collettivi. Energia ed entusiasmo ora sono dedicati a Kairos, il neonato collettivo di fotografi di cui faccio parte e che ha tanta voglia di crescere.